Olivetti e dintorni

OLIVETTI E DINTORNI


“Pensare è molto difficile. Per questo la maggior parte della gente giudica.
La riflessione richiede tempo, perciò chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi.”
CARL GUSTAV JUNG

 Studiando Adriano Olivetti

Più che un «utopista», Adriano Olivetti è stato sicuramente un «giusto», ed è una delle figure a cui ci si potrebbe (dovrebbe) ispirare, per pensiero pratico e tratto distintivo, ad esempio per «ricostruire» le zone terremotate degli ultimi quindici anni, per prevenire altri morti innocenti e per mettere al primo posto la dignità degli esseri umani che hanno subito questa tragedie devastanti, sia dal punto di vista materiale che, soprattutto, morale. 

Atipica Ivrea? No, c'è altro.

Molti studiosi delle scienze antropologiche e sociologiche continuano a riscontrare nella storia della Olivetti uno dei maggiori esempi di applicazione concreta ed efficace del concetto di Welfare, in una configurazione che non è collocabile in nessuno dei modelli «noti» dell’epoca, sia esso quello fordista, quello beveridgiano o quello dei diritti umani.
Ancora oggi, dalle interviste ad ex-olivettiani, o dall'osservazione partecipante che ho potuto svolgere grazie alla mia attività attiva nel settore dell'elettronica (e grazie ai miei contatti nel Canavese), il primo sintomo che si palesa distintamente è quello del rimpianto, il rimpianto di un’enorme occasione di crescita perduta.


Studiando Adriano Olivetti
L'occasione fallita
4 gennaio 2018 - M.Bernardi ®

Ad Ivrea, in via Guglielmo Jervis 22, si trova la porta di ingresso di quello che fino alla fine degli anni sessanta era l’Ufficio Colonie Olivetti, inserito all’interno di quel Centro Servizi fortemente voluto dall’Ing. Adriano Olivetti dopo accese riunioni nell’allora Consiglio di Amministrazione aziendale da esso presieduto.
Una struttura, quella dell’ufficio Colonie, ancora oggi architettonicamente funzionale, progettata nei minimi dettagli dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini, che ne seguirono la costruzione tra il 1957 e il 1958.

Il Centro Servizi Olivetti era articolato in quattro edifici, uniti in modo organico su Via Jervis e destinati ad accogliere una biblioteca, servizi sociali e assistenziali, aperti spesso anche nelle ore serali e fruibili non soltanto dai dipendenti della Olivetti ma anche dai cittadini eporediesi.

Entrando oggi in quel civico 22 si accede ad un curatissimo risto-bar gestito da giovani e simpatici ragazzi, che hanno adottato come nome quello stesso “Esagono” che altro non è che la forma dominante nel progetto di Figini e Pollini, nell’intimo rispetto del tempo passato: una meravigliosa collezione di macchine da scrivere campeggia sulla parete di fondo del locale e i ragazzi sanno sempre dare la giusta spiegazione a tutte le curiosità dei Clienti, sia che si tratti della Lettera22, della M1 o della Valentine, sia che si tratti del luogo fisico, trasmettendo passione ed evidente e malcelato trasporto emotivo.

Ma è salendo le scale che si può vivere la suggestione più grande, attraversando al primo piano il locale con il bancone bar, uscendo nella terrazza finemente arredata: le officine ICO, “Il gigante trasparente” come le ha definite Liviano D’Arcangelo, investono lo sguardo con l’immensa superficie vetrata, quel pan de verre teorizzato da Le Corbusier e fortemente voluto da Adriano Olivetti, per abbattere il diaframma fra l’operaio in catena di montaggio ed il resto del mondo, in un concetto di assoluta limpidezza materiale e, si badi bene, anche e soprattutto umana: sarà sufficiente approcciare la scena con un minimo di disincantata fantasia per immaginare ed osservare gli operai al lavoro lungo la linea, fra macchine evolutissime per l’epoca, incrociando nel sogno i loro sguardi e, perché no, anche i loro sorrisi.

Ad una attenta analisi dei fatti, ci sono pagine di storia imprenditoriale e cronache dell’epoca le quali attestano, liquidano e certificano Adriano Olivetti come “utopista”, banalmente perché non entrò mai nel conflitto ad esso contemporaneo (e fortemente finanziato ed inflazionato da ambo le parti per pura convenienza) della contrapposizione tra capitale e lavoro: la sua preoccupazione fu sempre come essi potessero convivere insieme per far progredire la società, nell’applicazione pratica di provvedimenti che tendevano ad erodere la struttura tradizionale della conflittualità sindacale.

«Non dovete confondere il comunitarismo con il comunismo», questo soleva affermare l’Ing. Adriano Olivetti: egli descrisse ed interpretò il concetto di Comunità in chiave realistica; fondò nel 1948 il Movimento di Comunità, per il quale venne eletto deputato nella III legislatura della Repubblica: contestualmente ebbe luogo un’intensa attività di organizzazione culturale, supportata dalle Edizioni di Comunità, grazie alle quali vennero introdotte al pubblico italiano degli anni cinquanta importanti testi a sfondo comunitarista.

Olivetti tentò di esplicitare il concetto della communitas, termine eternamente velato di ambiguità e connotato da enormi controversie esvariati punti di vista.
Per Olivetti, la Comunità non fu altro, per sua definizione, che il «diaframma umano fra individuo e Stato, un’entità concreta e di giunzione fra lo Stato hobbesiano e l’individuo atomizzato».

Attenzione, non una comunità collettivista, ma una comunità orientata al nucleo sociale costituito sul modello della famiglia, come «unità di sentimenti» piuttosto che come entità politica, come «ordine concreto», radicato nella vita, nel lavoro, nella cultura.
La comunità olivettiana, in altri termini, fu territorialmente definita, vivibile, né troppo grande né troppo piccola, dove fu possibile stabilire contatti diretti tra le persone e l’ambiente, che a tutte le attività umane fornisce efficienza e, soprattutto, rispetto della «persona», «della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori».

Adriano Olivetti diffidava di ogni forma di dogmatismo totalitario e ritenne che la democrazia italiana del dopoguerra non si sarebbe affermata senza la diffusa consapevolezza che l’effettiva «esperienza umana» può conservarsi soltanto a livello della comunità naturale: l’Ingegnere, con lo
sguardo di oggi, è portatore di una profetica visione e non solo a livello nazionale.
La tendenza tipica delle culture collettiviste avrebbe contribuito a logorare i rapporti primari che stanno alla base della società civile, con conseguenze negative immediate quali la «burocratizzazione dei rapporti sociali» e l’alienazione della società rispetto allo Stato.

La contrapposizione fra i blocchi occidentali ed orientali, fra «filoamericani» e «filosovietici», ha fatto perdere di vista la comunità primaria,
riducendo il concetto di Stato ad apparato Hobbesiano ed in larghissima parte Benthamiano.
Rimodulando la nota dichiarazione di Rousseau «l’uomo è nato libero ma dovunque è in catene», Adriano Olivetti affermava tuttavia che l’uomo nasce libero ma non certo nel deserto: egli viene al mondo in un determinato territorio, come membro di una comunità e di un particolare ambiente storico e culturale, cosicché la sua libertà necessità di uno spazio vitale e reale in cui esplicarsi spontaneamente nelle dinamiche di rapporti naturali e diretti; uno spazio di libertà, secondo Adriano Olivetti, è la «comunità dei rapporti immediati senza mediazione burocratica», la comunità che esalta
«l’unità dell’uomo», territorio culturale e di applicazione pratica del concetto di libertà.

Adriano Olivetti tentò di proporre in Italia un nuovo modello di rappresentanza, un’alternativa strutturata, per sua stessa definizione, tra la «democrazia autoritaria dei partiti cattolici» e la «democrazia progressiva dei partiti comunisti».
Si trattava della «democrazia integrata», una forma nuova di rappresentanza «più forte, più efficiente della democrazia ordinaria», in grado di coniugare l’uguaglianza necessaria con la libertà individuale e di integrare, nella società civile, gli eletti con i cittadini.

Olivetti affermò che la mancanza di conoscenza tra rappresentanti e rappresentati non è connotabile come democrazia: nelle pagine de L’ordine politico delle comunità è scritto chiaramente che solo una riorganizzazione dello Stato in senso comunitarista e federalista può garantire un rapporto di conoscenza diretta tra eletto e cittadino, concetto nebuloso e all’atto pratico impercettibile, nell’attuale esercizio di delega fortemente praticato da quelli che ormai sono e veri propri regimi parlamentari.

«Gli eletti di una Comunità, scriveva Olivetti, non potranno certo conoscere personalmente i centomila componenti della comunità stessa; viceversa costoro conoscono assai bene le vicende private di quelli, i tratti del loroc arattere, la loro competenza generale o specifica».
L’Ordine politico delle Comunità è il libro nel quale Adriano Olivetti ha organizzato la sua proposta di riforma della società in un preciso progetto costituzionale.

Un disegno illuministico di una mente illuminata, come Norberto Bobbio definì l’opera, articolato attorno all’idea di Comunità come entità centrale per il riassetto territoriale e istituzionale del governo locale.
Adriano Olivetti rimane storicamente e a tutti gli effetti un pensatore e un organizzatore politico realista, contrario a qualsiasi ideologia totalizzante della società e ad altrettanti progetti di centralizzazione politica edorganizzazione burocratica dello Stato che fosse diversa dal decentramento comunitarista.

L’apparato centralista venne visto da Olivetti come un intralcio tanto alla democrazia quanto alla libertà stessa della «persona», che non viene esaltata per le proprie peculiarità: un precursore del concetto delle capacità che anni dopo Martha Nussbaum avrà modo di elaborare nel suo pensiero.
“Città dell’uomo” è considerato incontrovertibilmente il testamento spirituale di Adriano Olivetti: in esso si mettono in evidenza “forze spirituali”, che null’altro erano per l’Ingegnere che i concetti di Verità, Giustizia, Bellezza ed Amore, nel senso Cristiano del termine, ma soprattutto nella compresenza di tutte e quattro le componenti, come la materializzazione dell’equilibrio di quei punti.

Nella “Città dell’uomo” l’Ingegnere afferma che la tecnologia e la scienza, quest’ultima intesa come tangibile creatrice di verità attraverso il progresso, conducono l’uomo verso la Verità, ma ad un patto: che le forze materiali a disposizione dell’uomo siano rivolte verso mete spirituali.
La nuova civiltà sognata da Olivetti, dopo quasi sessant’anni dalla sua tragica dipartita, non è ancora arrivata: egli aveva a cuore la Giustizia Sociale, ancor più di quella Giuridica, auspicando che agli operai tornassero in misura adeguata i frutti del proprio lavoro, in modo da soddisfare bisogni e risolvere problemi della Comunità di appartenenza.

La Bellezza per Adriano, non era solo estetica: era sentimento, la gioia del posto di lavoro, i bambini che giocavano in spazi verdi e curati, l’ineguagliabile valore intrinseco dei prodotti della Fabbrica: si prenda in mano una Lettera 22, ed ancora oggi, a distanza di settant’anni dalla sua progettazione, è difficile rimanere indifferenti davanti ad uno dei migliori prodotti che la tecnologia italiana abbia mai saputo realizzare.
La sintesi di uno Stato che funziona, nei principi suddetti condensati nel più ampio concetto di Amore.

Olivetti ha provato con tutto sé stesso a convertire quell’anomalia che Emmanuel Mounier profetizzò mirabilmente in La paura dell’artificiale.
Progresso, catastrofe, angoscia, del 1948, messo opportunisticamente “fuori mercato” in Italia già dal 1951.
Un saggio pervaso dall’immaginario della bomba e di tutto quello che stava offrendo la tecnica, un saggio che mette in contrasto progresso e catastrofe; Adriano Olivetti si sforzò quotidianamente di identificare la fabbrica come lo strumento che sarebbe servito per generare il progresso necessario per vivere in maniera migliore, uno strumento funzionale alla miglior vita possibile della Comunità: la fabbrica era davvero uno strumento e non un fine.
Per Ivrea passarono in quegli anni, per volontà di Adriano, poeti, sociologi, artisti e registi: la fabbrica era un tassello di una nuova piccola Atene.

Era chiaro e perfino dichiarato da Olivetti in persona, che al termine del proprio percorso la fabbrica di Ivrea sarebbe diventata di proprietà della comunità degli operai: verbali di molteplici Consigli di Amministrazione dell’epoca ne testimoniano le intenzioni, ovviamente osteggiate in modo furibondo dai soci, mentre oggi, ai tempi delle stock options a dirigenti iperpagati, si sprecano titoli di giornale stupiti quando qualche coraggioso imprenditore elargisce emolumenti, benefici e partecipazioni agli operai, remando contro il modo di fare di azionisti spregiudicati e fondi di investimento, magari residenti in qualche paradiso fiscale dei Caraibi.

In quegli anni di progresso esponenziale, nel Canavese (e non solo) Adriano Olivetti continuava ad adoperarsi per supportare anche coloro che volevano continuare il proprio percorso indipendente dal colosso delle macchine da scrivere e delle macchine da calcolo.
Ad esempio, il famoso amaro Don Bairo, veniva prodotto da una storica distilleria del Canavese che in quegli anni si trovava in qualche difficoltà; Olivetti entrò in società con la proprietà, in modo molto velato se nontramite l’I-RUR di cui egli era presidente (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale per il Canavese), creando un piccolo consorzio di produttori e contribuendo a risollevarne le sorti.

A Matera, egli promosse un comitato scientifico e tecnico per gestire l’evacuazione dei Sassi, con l’obiettivo di preservare il preziosissimo tessuto sociale della comunità contadina lucana: avrebbe potuto infischiarsene, aderendo al progetto politico che riversò tonnellate e tonnellate di cemento sul piano della città, raccogliendo facili voti alle politiche dell’epoca, ma distruggendo un’intera comunità, nata con la sola colpa di essere povera.
Quando l’ingegnere mancò prematuramente nel febbraio del 1960, l’azienda di Ivrea aveva pronto l’ELEA, il primo calcolatore a transistor al mondo, mentre pochi anni dopo, quello strascico di iper-tecnologia avrebbe regalato al mondo la P101, la Perottina, ovvero il primo personal computer della storia.

Apparati che sarebbero dovuti servire ad agevolare e migliorare la vita dell’uomo e non a diventare le protesi che oggi rappresentano, rendendo attualissime e drammatiche le lungimiranti considerazioni di Mounier.
Una realtà di “benessere virtuale”, spesso raggiunto con abuso di tecnologia, spreco di risorse naturali, distruzione sociale ed ambientale.
Aspetti su cui spesso bisognerebbe riflettere profondamente: ancora meglio, andrebbe fatto al primo piano dell’Esagono a Ivrea in via Jervis, ammirando i colori sulla vetrata dell’Officina, in quel gioco di riflessi che solo le cime alpine sanno offrire nella calda luce del tramonto.

Chiudendo gli occhi ed immaginando un bimbo sorridente che da quella terrazza incrociava i sorrisi del proprio padre o della propria madre, mentre stavano lavorando all’assemblaggio di una Lettera 22.
Le mani di due giovani ragazzi pieni di speranza e futuro, quelle mani impegnate insieme a tante altre a costruire uno strumento tecnologico,
realizzato per scrivere lettere, pensieri, contratti, libri; si, anch’essa una “protesi” dell’uomo, ma elegante e necessaria per mettere “in bella” il proprio essere.

Non un surrogato, non qualcosa di virtuale: non esisteva il correttore che scrive “sto arrivando!” al posto di “sa”, un errore costava il foglio, un
pensiero chiedeva di mettersi seduti a ragionare, a pensare, a trovare le giuste parole, senza condensare un addio, un invito, un’articolata e forse
timida dichiarazione d’amore, nei duecentottanta caratteri di un tweet in un display di uno smartphone, immersi nel caos del vivere quotidiano di questi tempi “post-liquidi”.

Aveva davvero ragione Mounier? La tecnologia ci avrebbe reso mostri che vivono in un mondo virtuale e freddo? Non sta a me poterlo affermare, tuttavia provo a riflettere al riguardo, nel frenetico mondo di WhatsApp e delle istantanee (dal punto di vista della condivisione) di Instagram.
Lo stesso discorso vale per l’MP3, sentendo parlare di un ritorno al vinile: si ignora che non sarà facile rieducare all’ascolto “le orecchie” delle nuove generazioni a frequenze sconosciute alla musica digitale; ma soprattutto si riuscirà a riscoprire il tempo di sedersi davanti ad un giradischi, in una ritualità ormai smarrita?

Gli artisti, i produttori, saranno disposti a ri-condensare la propria arte nei quarantacinque minuti massimi di due facciate di un supporto, vista ormai l’abitudine ad offrire il doppio di minutaggio, con un’offerta qualitativa decisamente deperita?
In cuor mio, lo spero per le future generazioni.
Mi limito ad osservare, ammirando con una punta di malinconia l’armonia delle forme della mia Lettera 22 appoggiata sul tavolo.
Suggestione? Nostalgia? Sogno? Forse.

Sicuramente positività, perché il bello sta proprio nella prospettiva della realizzazione concreta di una o più buone idee e, come tutti i sogni e le speranze che nascono nel cuore, lascia quella bella sensazione tipica dei sentimenti più umani, spesso del tutto avulsi dal puro profitto.
L’alterità per Adriano Olivetti si sviluppò in maniera così evidente, sebbene egli attraversò il periodo della sua gioventù fra fortissimi totalitarismi.

Quegli stessi totalitarismi evidenziati nelle mirabili pagine dell’epoca in cui Dumont descrive i forti connotati individualistici di tali processi sociopolitici, paradossali rispetto ai continui richiami alla comunità da parte disoggetti come Hitler, ad esempio.
Luis Dumont, resta a mio giudizio un grandissimo pensatore nel come professò la libertà di pensiero, istigando a disancorarsi dalle linee del proprio tempo, parlando di pragmatismo e di amore intellettuale, che non è accettare “l’altro” a prescindere, ma è rispettarlo nella propria unicità ed interezza.

A leggere le notizie di questi tempi, sembra utopica follia, sembra davvero essere tornati a nuovi totalitarismi.
Tuttavia, è importante non far cadere nell’oblio il pensiero di Olivetti, le sue realizzazioni pratiche: ad Ivrea, a Matera, a Pozzuoli, in molte delle sue frasi piene di lungimirante speranza e rispetto per l’Uomo.

Doveroso è provarci ancora.
Provarci per riuscirci ogni giorno.

La scorta
8 settembre 2014- M.Bernardi ®

Stavo leggendo un articolo che parla di "imprenditori moderni",  manager addirittura dotati di scorta.
Scortati non per sicurezza generica, ma spesso per paura di rappresaglie da parte delle maestranze in tempi di crisi.

Il pensiero, inevitabilmente, va ad Adriano Olivetti, che andava nelle cascine del Canavese in visita ai familiari dei giovani dipendenti della Fabbrica, per tranquillizzare le vecchie famiglie contadine rispetto al fatto che non avrebbero perso i loro animali e i loro campi.

Tant'è che le aziende agrarie furono sovvenzionate e migliorate dal progetto Comunità. 
Ok il progresso, sono passati 60 anni da allora, il mondo non è più lo stesso, ma, la lungimiranza, il cuore e il rispetto, o ce l'hai o non ce l'hai.

E non serve la scorta.

Sciame Sismico Infinito
22 agosto 2017- M.Bernardi ®

Sto accuratamente evitando di riversare su Facebook, che ultimamente è un ring, i riscontri rabbiosi che ho potuto osservare nella pratica delle attività emergenziali e di ricerca post-sisma.
Tuttavia, mi sembra opportuna una precisazione ed una personale riflessione "social".
Prendo spunto dal commento del mio amico Massimiliano rispetto alle cifre allucinanti di richieste di condoni edilizi.

E insieme alle cifre sconvolge il "malcostume legalizzato".
Quando alcuni studiosi sociali mi chiesero "che c'entra Olivetti con il terremoto?" gli feci notare che a Matera, a Ivrea, a Pozzuoli, egli (l'Ing Adriano) avrebbe voluto urbanizzare appunto in "modo sociale" e per "socializzare", creando opportunità, identità, coesione.
È stato scelto altro, è stato scelto di cementificare anche le nuvole, per tornaconto politico, per profitto, per atomizzare le persone fino a farci diventare le belve che siamo diventati.

Questo nessuno me lo toglie dalla testa: l'Italia "bella" è quella medievale o quella dei poderi della mezzadria, mentre l'edilizia post bellica fa letteralmente schifo.
Il nostro è uno dei paesaggi urbani più disarmonico al mondo; l'unica certezza sono tonnellate di cemento.
27.000 richieste di condono, sono una delle tante manifestazioni del furbo italiano; tanto poi ci sono i vigili del fuoco e i volontari che, per briciole economiche, rischiano il collo e fanno vedere al mondo "quanto siamo bravi".

È, mi sembra evidente, il loro cuore che ci fa sopravvivere (ancora) e ci da l'unico esempio di "pulito".
Stamattina, guidando verso Roma, ho sentito battibecchi radiofonici sul nulla, trattando una scossa 4.0 come se fosse l'esplosione del vulcano che ha spazzato via l'isola di Monserrat nel Mar dei Caraibi.
E, come sempre (e come documentato da sondaggi scientifici), una gazzarra a base di opinionisti, politici, cantastorie varie.

Poi, eccezionalmente, qui mi sono davvero stupito ed allarmato, parlano il geologo, l'ingegnere civile e l'antropologo (gentaccia), mettendo sul piatto fatti e non opinioni, e improvvisamente cala il gelo, prima della ripartenza della caciara.
Poi arriva il radioascoltatore che parla di magnitudo abbassate o "piove governo ladro".
Il tutto, scippando le parole a Faber, "mentre il cuore d'Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta", che altro non è che un cicaleccio.

Da cittadino umbro mi permetto di dare un consiglio a chi si occuperà del "dopo", prendendo ad esempio Norcia del 1979, e due persone, agli antipodi assoluti come ideologia: Alberto Novelli e Franco Giustinelli, il primo democristiano, il secondo comunista.
Misero da parte il "partito", lavorarono sulle UMI, che all'atto pratico hanno salvato Norcia e i Nursini.
Giustizia sociale e bene comune: non i maledetti affaracci propri.

È l'unica via.

La governante e il recruiter
Milano 16/12/2015

Due anni fa, ad una fiera internazionale sulla sicurezza, ho conosciuto un giovane laureato in Economia alla Bocconi; sua nonna era la governante di casa Olivetti, ed è stato il pretesto per approfondire ulteriormente la mia curiosità smisurata per quel miracolo semi-dimenticato.

Parlando, mi ha raccontato che ha fatto molti colloqui uscito dalla UNI, fino ad arrivare a superare una preselezione in una grande multinazionale (di cui non faccio il nome) con sede italiana a Milano.

Mi ha raccontato che il colloquio è stato un concentrato di boria da parte dei recruiters dell'azienda, ed in buona sostanza gli hanno proposto turni da fabbrica ottocentesca con annesso stipendio da fame.

A questo punto il ragazzo ha fatto delle obiezioni pesanti (e a mio giudizio giuste), dando degli sfruttatori a questi headhunters e ai loro committenti, e uno dei super manager del "collocamento moderno" gli ha risposto: "Ehi! Tranquillo giovane! Noi siamo la xyz! una delle aziende migliori al mondo!"

Il giovane laureato, a cui va tutta la mia stima, ma proprio tutta, gli ha risposto così:
"L'azienda migliore al mondo non esiste. L'azienda migliore al mondo semmai ce l'avevo a 200 metri da casa, quando ancora non ero nato, in Via Jervis ad Ivrea. Purtroppo quell'azienda ha avuto il difetto di nascere e crescere nel contesto e nell'amministrazione politica più sbagliata che abbia mai governato l'Italia.

Quando parlate di "migliore", pensate all'Olivetti e, possibilmente, tacete". Poi, mi ha raccontato che si è alzato e se ne è andato.

Non so cosa faccia adesso quel ragazzo, sicuramente troverà la sua strada, la migliore.
Buon Natale ai giovani pensanti come lui, e ce ne sono molti.

Quando ero social

A che serve arredare casa nel miglior modo possibile, se poi usiamo il linguaggio delle caverne?

Schedateci Tutti
1 febbraio 2017

#schedatecitutti #tagmyface

Controlli sui social. Presente.
Prendete nota dai server di Facebook (peró la traduzione ve la fate da soli)

Adoro le luci di New York, mi piace Broadway con i suoi teatri e la panchina sotto al Verrazzano dove si è seduto John Travolta, è bellissimo che un qualunque ragazzo hawaiano e di colore possa diventare il presidente, ho passato nottate ad aspettare Lakers vs Celtics, ascolto suono e adoro il blues, Elvis e il Boss riempiono i miei scaffali, ho un basso e una chitarra Fender, un telefono un tablet ed un pc californiani, un poster e tanti dischi di Jim Morrison, libri di scrittori e filosofi spesso accolti ed aiutati da una terra piena di possibilità, ascolto BB King e Tina Turner, Joe Bonamassa e Beth Hart, Kenny Wayne Sheperd e Joe Satriani, sogno il Grand Canyon e i Navajo, le pianure del Missouri per capire la musica di Pat Metheny e Charlie Haden, le mie prime casse acustiche venivano da Sacramento e furono il frutto di 3 estati di duro lavoro da ragazzino, adoro la ricerca informatica e la loro tecnologia, comunico con orgoglio la mia certificazione Microsoft presa on-line con Seattle, mi piacerebbe vedere i grandi laghi, Indianapolis e Laguna Seca, la Route66 e lo Smithsonian a Washington DC.

Dall'altro lato non sopporto quelli che vogliono costantemente la guerra, i Cruise, i droni, i finanzieri che commerciano in morte e terrore, quelli che giocano sulla pelle dei poveri, gli esaltati che continuano a sterminare nuovi pellerossa in giro per la Terra e quelli che sono prepotenti nella convinzione che il comando renda padreterni.
Proprio come Donald Trump.

Schedato bene? Grazie.
Michele Bernardi - Italia. 
Ventotene e il Panopticon
24 settembre 2016

A Ventotene, li avrei portati a vedere il carcere, esempio mirabile dell'idea del Panopticon di Bentham.
È il sistema di monitoraggio integrale e pressoché automatico, che loro (i "padroni" della UE) stanno applicando con i loro folli sistemi di finanza applicata.
E gli avrei spiegato meglio le figure di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi, di Umberto Terracini, di Sandro Pertini, i quali durante la prigionia in quel luogo pensavano ad un'Europa libera, fatta di eccellenze, di umanità, di condivisione, mentre rischiavano la fucilazione ogni giorno.
La differenza forse è tutta qui.
La differenza fra chi ha a cuore il genere umano e chi ha a cuore perversi giochi di potere, senza pensare al futuro.
Poi dite che storicamente gli Italiani sono traditori....

Con dei pazzi non ci sono grosse alternative.

Una stretta di mano
1 novembre 2015

Ero un ragazzino quando il Presidente era Sandro Pertini, e ricordo nitidamente la sua presenza in Irpinia, a Bologna, al pozzo di Vermicino.
Erano proverbiali le sue entrate a piedi pari con parole tuonanti contro il marcio, politico e sociale, i suoi tentativi continui di arrivare al cuore delle persone oneste: prima al cuore, non al cinismo strategico e al portafoglio, come fanno ora.
Ricordo le transenne di Corso Vannucci, ricordo la sua stretta di mano ed il suo messaggio, rivolto a noi ragazzi delle scuole, amorevole ma severissimo nelle raccomandazioni di responsabilità.
Mille pretesti erano buoni per fare "salina": quella mattina quella stretta di mano lungo il corso fu per me molto più efficace di 5 ore di scuola.
Viceversa, la politica attuale, in particolare i suoi sommi leader, la vedo quasi sempre ed esclusivamente orientata solo a positività e a messaggi "luminosi": sembra Gran Varietà, Canzonissima, Milleluci, i primi Fantastico.
Non una sola reprimenda verso il marcio, non una presa di posizione critica e davvero politica.
Il prossimo step sarà rappresentato dai balletti modello Kessler o la Ruota della Fortuna?

Fa tanto Orwell... Personalmente, mi fa anche tanto senso.

A ruota libera


E adesso che farò non so che dire, ho freddo come quando stavo solo.
Ho sempre scritto i versi con la penna, non ho ordini precisi di lavoro
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani e quelli che rubavano un salario.
I falsi che si fanno una carriera, Con certe prestazioni fuori orario
Canterò le mie canzoni per la strada, ed affronterò la vita a muso duro
Un guerriero senza patria e senza spada, con un piede nel passato
E lo sguardo dritto e aperto nel futuro

"A muso duro" - Pierangelo Bertoli


Padreterni moderni
24/03/2014

L'essenza stessa di "fare Azienda", è quella di innovare, crescere in maniera organica, trovare il tempo di poter sorridere davanti ad un successo e di poter riflettere davanti ad una sconfitta.
Invece, in questo posto chiamato Italia, è una quotidiana lotta per la sopravvivenza, per ottimizzare ed orientare le scelte strategiche al "male minore".

Ed è in questo che manca il ruolo centrale della nostra nazione: quello di tutelare, come in una famiglia, i propri ragazzi, i propri anziani, il benessere condiviso.
Ma direi che manca proprio una nazione, da questo punto di vista, è qui che manca in maniera pesante l'Italia: vince la guerra chi strilla più forte, vince chi conosce "più" e non in senso culturale, e per le istituzioni alla fine non c'è differenza, non c'è meritocrazia, c'è un numero, un codice fiscale, una partita IVA, un continuo imporre tasse, balzelli, momenti di enorme improduttività, che ottengono il solo effetto di lasciare a casa tanti giovani, anche con potenzialità enormi, che farebbero rifiorire questo posto, come fecero gli operai dell'Olivetti a Ivrea, o i meccanici della Lancia a Chivasso, o come i siderurgici dell'Acciaieria di Terni.

Sarebbe bello se domattina si prendessero e si portassero come esempio un dipendente pubblico che snellisce la burocrazia, un operaio che elabora manufatti speciali, un ingegnere che progetta grandi innovazioni, un imprenditore che ama la sua Azienda come un figlio: e sarebbe bello metterli in proporzione, loro ed i loro risultati, con chi blatera di non voler rinunciare a stipendi da € 2.191,00 al giorno e, peggio, si sente un padreterno (però con la p decisamente minuscola).

L'Italia vera è altro. Ma non ce ne siamo ancora accorti.
  

Generazione di fenomeni
20/03/2016 

In sociologia si chiama “Overlapping Institution”, una interessantissima tematica applicata.
Premetto che ormai a quasi cinquant’anni ringrazio la generazione dei nostri genitori, i quali ci hanno creato una buona autostrada per vivere abbastanza sereni negli anni “buoni”, ma allo stesso tempo mi fanno venire il ciclone se penso a cosa stanno facendo nei riguardi nostri e dei nostri figli (loro nipoti).
Hanno le seggiole con i rivetti, non si schiodano dalle loro idee e dalle loro vedute.

Rispecchia l’azienda Italia, dove una generazione di “industriali”, rappresentata da gente appunto nata e cresciuta negli anni trenta e quaranta, in un Nazione avviata alla devastazione o devastata dalla guerra, si è ritrovata a gestire un repentino passaggio dalle famose "pezze sul didietro" a diventare nel giro di venti anni una generazione di “mega imprenditori galattici”, smuovendo miliardi di lire, per carità, con la fatica e i sacrifici personali, ma senza un briciolo di pianificazione e formazione.
Poi è arrivata la mia generazione, quella dei diplomi, quando bastava una buona scuola tecnica per ritrovarsi a 18 anni ad avere un futuro sicuro e garantito o da uno stipendio, o dalla azienda di famiglia, per chi aveva già lo slancio.
I più fortunati alla UNI, ovviamente economia, perché poi sarebbero diventati "mega direttori" finanziari, oppure giurisprudenza, che "un avvocato in casa non guasta mai".
Badiamo bene, in un paese di artigiani, inventori, geni della manifattura.
Con l’incubo che si è manifestato, attualissimo, di far carriera praticamente mai, lavorando sempre e comunque a testa bassa e agli ordini della generazione di cui sopra, approcciando le cariche dirigenziali intorno ai quaranta anni, quando va bene.
Il mantra: “non siete capaci, non avete la nostra esperienza”.
Spesso ho fatto notare alla generazione del boom economico, se ricordano che l’edilizia tirava a ottomila, che le fabbriche che lavoravano a tutto vapore distribuendo stipendi, magari inadeguati ma certi, non esisteva l'Iva, c'erano meno tasse, c'era una certa politica corrotta, una mucca da governare e mungere a ciclo continuo, che magari ti metteva la moglie a fare sei ore in Comune per poi il pomeriggio gestire la fabbrichetta, non esisteva la distruttiva concorrenza cinese, il sistema della giustizia non era il massimo, ma di certo non era disastrato come adesso, un sistema attuale che protegge cantastorie e pagliacci vari "non paganti".
Con questi presupposti, sarei stato “un po’ più capace” anche io.
Che poi alla fine altro non è che la capacità di “fare i soldi”, tema che per la maggioranza resta il massimo degli obiettivi.
Che non vuol dire saper fare gli imprenditori.
Eccoli. Non se ne vanno al mare o a spasso con i nipoti.
Perché, sicuramente, ne sanno più loro, i patriarchi, di chiunque altro più giovane, e reciteranno “noi siamo la generazione che ha davvero fatto ripartire l’Italia”, “Voi siete delle pappamolle”, e così via.
Ne deriva che la mia generazione sarà quella che continuerà a lavorare fino a 80 anni, pagando pensioni per poi non percepirne affatto.
La generazione dei miei figli invece avrà quattro lauree e cinque Master per ogni soggetto, sperando che vadano bene per il curriculum richiesto da McDonald o Burger King.

Gli scienziati sociali anglosassoni lo chiamano appunto Overlapping Institution, in Italia la puoi chiamare rivettati vari e gente che ha venduto l’umiltà e i sacrifici di quando era ragazzino alla facile ignoranza di un auto lunghissima con sedile in pelle ed una scrivania in mogano nero.

Da non mollare, assolutamente.

Umbria - Ohio

24 ottobre 2019


La meravigliosa libertà del voto, si è trasformata in uno spot a tratti perverso per la nostra piccola e spessissimo dimenticata regione.
Una regione fatta si di poche persone, le quali però meriterebbero un altro rispetto.
Il rispetto che non c'è stato:
- non c'è stato rispetto quando l'autostrada del Sole doveva passare necessariamente per Arezzo
- non c'è stato rispetto quando la Fano-Grosseto è tutta in una galleria simbolo sull'Appennino, galleria usata come fienile
- non c'è stato rispetto quando è stato messo un Frecciarossa alle 5 del mattino e solo a Perugia, 40 anni dopo il TGV in Francia, con una rete ferroviaria regionale che somiglia, al netto del treno a vapore, a quelle dei film western di Sergio Leone,
- non c'è stato rispetto quando negli ultimi 40 anni, in quattro terremoti oltre il 6,0 sono morte 20 persone, contro le centinaia di altri luoghi, anche limitrofi, e nessuno ha visto bene di esaltare ed adottare il modello antisismico
- non c'è stato rispetto quando abbiamo la migliore onco-ematologia del mondo e facciamo passare il messaggio che "all'Ospedale di Perugia son tutti ladri", buttando bambino e acqua sporca.
- non c'è stato rispetto quando la deindustrializzazione di Terni è stata trasformata in una fuga verso Roma o peggio verso il nulla, lasciando scontrare gli operai dell'Ast con la Polizia fuori dal MISE.
- non c'è stato rispetto quando per andare da Città di Castello a Terni ci sarebbe la FCU, da usare anche come linea turistica, ma al momento conviene passarci sopra in Mountain bike.
- non c'è stato rispetto quando siamo ormai riusciti a fare spopolare Castelluccio, a favore di chissà chi.
- non c'è stato rispetto quando a Perugia ci sono due Università, scomode per un qualsiasi studente che abiti oltre San Sisto
- non c'è stato rispetto quando la E45 è diventata una camionale e nell'arco di cinquant'anni ho avuto il piacere di vederla costruire e rifare completamente, il nostro piccolo Ponte Morandi in pratica.
- non c'è stato rispetto dal resto d'Italia tante altre volte, troppe.

La Sig.ra Tesei ed il Sig. Bianconi abbiano a mente quanto suddetto e a cuore il 'dopo-festival", quando la "Roma dei palazzi" e la "politica da smartphone" si domanderanno nuovamente se Perugia è in Toscana, Norcia nelle Marche o la Cascata delle Marmore in Trentino.
Ho sentito dire che politicamente siamo diventati l'Ohio; da quelle parti c'è la Rock and Roll Hall of Fame e magari sarà la volta buona che avremo un Auditorium per ascoltare decentemente un concerto di Umbria Jazz.

Che non si svolge a New Orleans.

Breve storia dell'Assessore venuto dal Nord e di un Umbro chiacchierone

Perugia, 29 febbraio 2020

Quando stamattina, sabato, ho aperto l'attività alle 6.00 (è tardi rispetto agli altri giorni), credevo di trovarmi ad aspettare l'assessore veneto che ha detto che gli umbri sono solo abituati a chiacchierare e non a fare.
Lo vorrei qui con me, nelle ore calme del mattino, quando non squillano i cellulari, in mezzo all'organizzazione operativa di una piccola azienda, per prendermi una pausa, poter parlare serenamente e farmi prendere dalla malinconia del ricordo.
Il ricordo di quando ero bambino e mi facevo svegliare alle 4 del mattino in piena estate, per la gioia immensa di andare a fare il "giro del latte" con Papà o con lo zio Elio e vedere Perugia risvegliarsi lentamente, dentro un furgone che per me era un'astronave.
Scambiarsi sorrisi con le persone, aspettare il regalo di una brioche con la panna quando arrivavamo all'Accademia in via dei Priori.
Si, tutta gente che chiacchierava.
Dicevano buongiorno e sorridevano, quasi tutti.
Nullafacenti come gli stessi che incrociavamo in entrata o in uscita dai turni della Perugina, di Spagnoli, del Lanificio a Ponte Felcino.
Sentissi tu le chiacchiere!
Chiacchiere talmente forti che dopo oltre quarant'anni mi ritrovo ancora qui ad alzarmi prestissimo la mattina per provare a fare qualcosa di utile, insieme a tanti Umbri, i quali, sottotraccia come è nell'indole montanara che ci contraddistingue, lavorano e producono in silenzio.
Eh sì, chiacchieriamo e non facciamo.
Ha proprio ragione, come dite voi siamo "terroni" della peggior fattura.
Però, chissà perché, andiamo avanti: triboliamo, ma andiamo avanti rispetto a territori, tipo il suo Sig. Assessore, dove alcuni "imprenditori" hanno ben pensato esclusivamente a "fare soldi", non a fare azienda e comunità in modo organico, diffuso e civilmente condiviso.
Il mitico salto "dal trattore alla Ferrari", senza un percorso intermedio di crescita e formazione.
E senza educazione, cultura e, soprattutto direi, rispetto per gli altri.
Lo sterminio di capannoni vuoti che contraddistinguono alcuni tratti del suo territorio, non offre un biglietto da visita proprio edificante e me ne dispiaccio, a fronte di tanti amici e conoscenti veneti, onesti, che tutte le mattine tirano il carretto.
A quei grandi "imprenditori" è finito il serbatoio della manovalanza low cost, che arrivava da est subito dopo il 1989?
Credo proprio di sì.
Provi ad ascoltare La domenica delle salme di Fabrizio De André, c'è un momento della canzone che rende l'idea con chiarezza estrema.
Ma sono solo chiacchiere di un umbro.
Lo sa, Sig. Assessore, che in pieno boom dei problemi legati al Coronavirus, l'azienda che rappresento, con sede lungo il Tevere e non lungo il Po, ha aumentato il venduto e tutti i trend di crescita programmata?
Tutto questo in Umbria, e senza commercializzare Amuchina, Mascherine, Penne Rigate o Bastoni Magici per Scope.
Con due fiere saltate, con persone che lavorano senza fare clamore e con serietà.
Con Clienti con i quali condividiamo, non speculiamo.
Ci rifletta al riguardo.
Produciamo e commercializziamo, oltre ai nostri prodotti e servizi elettronici, condivisione ed un percorso di mutua crescita, come sanno fare tanti Italiani dal Brennero a Lampedusa (si, anche i terroni!) al netto di sobillatori che non perdono occasione per dividere, offendere e classificare questo o quello.
Dimenticando che, partendo dal presidente degli USA fino all'ultimo disperato di un ghetto africano, il minimo comune denominatore è il prodotto per la tazza del WC (e cito un eminente Prof di Sociologia Generale in questa considerazione).

La aspetto Assessore, mi perdonerà se ho sottratto dieci minuti del mio tempo al lavoro alle 6 di mattina, mi perdoneranno i miei soci ed i miei colleghi e collaboratori, gente che chiacchiera molto poco e "tira fuori il bollito", come si usa dire da queste parti.
La aspetto, per raccontarle la storia di tanti Umbri come me, che hanno ancora nel DNA il contrasto in fermento fra la calma sparsa da Francesco e la voglia di rispetto e vita dei ragazzi del Borgo XX Giugno.
La aspetto però alle 5 del mattino in ufficio, ci facciamo un bel selfie e guardiamo insieme sorgere il sole dietro al Subasio, uno spettacolo fantastico mi creda.
Accade ogni mattina.

E le ricordo questa frase a seguire, quando alle 10 del mattino le scapperanno certe considerazioni.

Come diceva 'l mi' nonno, "a quill'ora io già ho pranzato"

Cordialità.
Michele Bernardi
Umbro chiacchierone.
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